Recensione di “Space Hunter” della Miciosegone

Space Hunter (by Miciosegone)

Premessa generale.

Non ho scritto molte recensioni (è anche vero che in generale non ho scritto molte recensioni punto e basta) di avventure freeware/amatoriali, tantomeno comiche. Ritengo che non si possa parlare alla medesima maniera, utilizzando cioè lo stesso metro e gli stessi strumenti che comunemente si adottano  per analizzare un prodotto commerciale. Se da una parte non è ragionevole aspettarsi caratteristiche di alto livello che richiedono un team progettuale a tempo pieno con conseguenti budget dedicati, dall’altra il solo fatto di avere una squadra di sviluppo che lavora per diletto e non per profitto non può giustificare un degradamento qualitativo delle caratteristiche proprie di un’avventura grafica rapportato sia alla struttura standard del genere sia ad un accettabile livello degli aspetti estetici del gioco rispetto agli standard correnti. Detto “terra terra”, un gioco amatoriale alla “Hugo in the house of horror” (che tanto freeware non era, fra l’altro, bensì shareware) poteva essere accettabile e forse addirittura al livello delle avventure Sierra a cavallo degli anni ‘80/’90, ma sicuramente oggi, in mancanza di precise scelte stilistiche e di altri aspetti che controbilancino la grafica pixellosissima, farebbe alzare il sopracciglio anche al retro giocatore nostalgico. Ciò detto in forma del tutto generale e slegata dall’avventura in questione, solo per introdurre il problema metodologico che ci si può, e ci si deve, porre nella critica di un prodotto così diverso da quelli mainstream, la domanda da porsi prima di entrare nel vivo della recensione è: quale critica è necessario adottare per i prodotti, nel nostro caso le avventure grafiche, amatoriali e freeware (termini che per amore di semplificazione potrei tendere ad usare come sinonimi in questo contesto, ma che sinonimi a priori non sono)? La scelta che ho fatto è di procedere, né più né meno con le medesime modalità di un’avventura commerciale, cercando cioè di estrarre gli elementi costitutivi di un rappresentante del genere (trama, grafica, interfaccia, musica/suono/doppiaggio, enigmi, testo) ed individuare “delle basi razionali per la valutazione e l’apprezzamento dell’arte”, come dice wikipedia nella definizione della “critica artistica”, eliminando dall’analisi tutti quegli elementi come confezionamento esterno, manualistica, presentazione del sito, altre recensioni, dichiarazioni del produttore, che, pur rappresentando forme di (iper)testo inerente all’opera in esame, ciononostante costituiscono elementi metatestuali in forma di peritesto ed epitesto (strutture semiologiche il cui approfondimento nell’ambito della critica videoludica, e più nello specifico, delle avventure grafiche, mi ripropongo di analizzare in altre sedi in un futuro indefinito).

Ma perché, qualcuno potrebbe chiedere (e concludo)  i videogiochi sono arte? Certo che lo sono, se accettiamo quanto riportato sempre da wikipedia, che non sarà la Bibbia, è vero, ma non è neanche un romanzo di Liala, che:

“l’arte, nel suo significato più ampio, comprende ogni attività umana – svolta singolarmente o collettivamente – che porta a forme creative di espressione estetica, poggiando su accorgimenti tecnici, abilità innate e norme comportamentali derivanti dallo studio e dall’esperienza. Nella sua accezione odierna, l’arte è strettamente connessa alla capacità di trasmettere emozioni, per cui le espressioni artistiche, pur puntando a trasmettere “messaggi”, non costituiscono un vero e proprio linguaggio, in quanto non hanno un codice inequivocabile condiviso tra tutti i fruitori, ma al contrario vengono interpretate soggettivamente.”

e, proseguendo:

Alcuni filosofi e studiosi di semantica sostengono però che esista un linguaggio oggettivo che prescinda dalle epoche e dagli stili e che dovrebbe essere codificato per poter essere compreso da tutti, sebbene gli sforzi per dimostrare questa affermazione siano stati finora infruttuosi.

Io ovviamente, che amo mettermi sempre dalla parte più scomoda, sono di quest’ultimo avviso.

Resta comunque fermo il fatto che, il solo fatto che un’opera possa essere “artistica” non la pone automaticamente sullo scaffale dei capolavori, esistendo arte fatta bene e arte fatta male, e chi si pronuncia su quale lo sia e quale no, oltre al riconoscimento del pubblico, non necessariamente pagante, attraverso la percezione soggettiva di ciascuno, è la critica.

Premessa alla recensione.

Space Hunter è un’avventura grafica prodotta in forma amatoriale con il motore e ambiente di sviluppo AGS dalla Miciosegone Games Inc. (sic!), la “più produttiva casa di produzione freeware italiana”, recita il sito web, pubblicata nell’agosto del 2010, secondo quanto riporta Mobygames. A questa recensione si è arrivati anche dopo essere venuti a conoscenza che alcune avventure dello stesso produttore hanno rappresentato l’Italia presso competizioni ufficiali internazionali, notizia che è circolata forse un po’ troppo “sottotono”.

Non sia mai.

Qualunque impegno a qualsiasi titolo volto a promuovere e diffondere l’avventura grafica come forma di produzione di opere artistiche, va valorizzato e fatto emergere.

Il gioco, ottenibile ovviamente solo attraverso download, si installa semplicemente decomprimendo la cartella zippata nella directory che preferiamo. Il file Readme.doc non offre una bella presentazione per i giocatori stranieri (che potranno giocare in inglese l’avventura operando sul file di setup; in questa recensione viene valutata la versione in italiano): si parte subito con un chiaro svarione di inglese: “For play the game on wyndows 7 use the winsetup file for choose a lower risolution , fullscreen don’t work”.  Il consiglio in realtà è un po’ troppo drastico: sul notebook su cui è stato provato il gioco, con Win7, è stato possibile giocare a schermo pieno con un gioco di CTRL-ALT-DEL / “Passa a …” ma senza potere visualizzare i filmati. Alla fine si è optato per la decisione di giocare alternativamente per la maggior parte del tempo in finestra (non ridimensionabile, a meno di operare su altri settaggi che comunque non si sono trovati) e in parte a tutto schermo.

Il tema del cacciatore (di taglie) spaziale, trasposizione futuristica dell’investigatore privato dei film noir, è un tema ricorrente nella letteratura cyber-punk-fantascientifica (basti pensare, uno fra tutti, a Blade Runner), che fa riportare alla mente anche un vecchio film del 1983, Il cacciatore dello spazio (Space Hunter in originale, appunto).

Voglio entrare nel vivo della recensione sputando sin da subito i “rospi” più grossi, per passare poi in seguito agli apprezzamenti, che non mancano, ci tengo ad anticiparlo, pur essendo globalmente questo titolo un lavoro “adolescenziale”, questo va detto senza mezzi termini, e per molti versi un lavoro lasciato a metà.

Primo tra tutti, lo scoglio degli errori di ortografia, che non si limitano ad estemporanei errori di battitura, ma che testimoniano una carenza di base della grammatica e dello stile di scrittura. Sono veramente fastidiosi, ed impediscono di poter seguire decentemente le linee di testo a video; talvolta il sorriso viene provocato dagli svarioni (uno tra tutti, “propio” o “propietario”  senza la seconda erre, ripetuto decine e decine di volte nel corso di tutta l’avventura), più che dalle battute.

Un esempio degli errori di ortografia.

Questo, voglio intenzionalmente essere duro su quest’aspetto, non deve accadere mai in un gioco che presenti molto testo come la maggior parte delle avventure grafiche. Il problema è facilmente arginabile e risolvibile, basta (tanto siamo in ambito amatoriale e non remunerativo) rivolgersi ad un amico, che magari abbia un otto in italiano (almeno uno lo si troverà, perdiana!) e chiedergli la cortesia di correggere gli errori di ortografia, le “è” o le “é” dove servono (non sono la stessa cosa), controllare gli apostrofi dove sono necessari e dove non lo sono, i”centra” per “c’entra”, i “cie” e “gie” inappropriati o convertiti in “ce” e “ge” erroneamente, la consecutio temporum e il congiuntivo dove necessario, i monosillabi che non richiedono accentazione, tutte cose a cui con una passata del correttore ortografico di un qualsiasi programma di videoscrittura si può dare una sgrossata micidiale. Questo è uno dei tanti elementi che mi portano a credere che non sia stato dedicato il necessario tempo per realizzare quest’avventura. Un’avventura, non importa se amatoriale o commerciale, non si fa in 10 giorni, in primo luogo, ma soprattutto senza un adeguato ed approfondito betatest condotto da persone terze rispetto all’autore, meglio se completamente digiune di informatica, giochi, o del tema stesso. La sensazione generale, praticamente in ogni comparto, fatta eccezione per  quello musicale, è che il lavoro sia stato buttato giù di getto e che ci sia accontentati di una versione beta, senza preoccuparsi di individuare e correggere molti difetti  anche evidenti. La fretta è sempre una cattiva consigliera in tutte le cose, ma in questo caso lo è ancora di più. Non si diventa buoni realizzatori di avventure sfornandone diciotto (dico per dire) mediocri in un anno, ne basta una, fatta perbene. E  questo è un atteggiamento che va evitato in ogni caso, lo sviluppatore, se commerciale a maggior ragione perché ha un dovere nei confronti del giocatore pagante, ma pur sempre anche nel caso sia amatoriale, ha un obbligo morale che comincia nel momento stesso in cui progetta l’opera e termina il giorno del rilascio finale, di consegnare al gioco un prodotto che sia ragionevolmente quanto di meglio ha potuto fare.

Grafica

In un’avventura grafica, la grafica, appunto, non può essere trascurata; certo, è vero che un’avventura senza grafica, se c’è una storia valida, continua a reggersi in piedi (semmai diventa testuale), mentre difficilmente riesco ad immaginare il contrario, ma questo non deve diventare un alibi. I fondali devono essere rifiniti per quanto si può, i path (le parti realmente calpestabili dall’avatar) devono essere ben delineati, non devono vedersi innaturali percorsi che “attraversano” letteralmente oggetti impenetrabili o personaggi che “levitano” per aria, gli oggetti e le parti interagibili devono essere facilmente riconoscibili e gli hotspot (ossia le parti interagibili della schermata di gioco) devono essere precisamente puntabili. Sotto tutti quanti questi aspetti, Space Hunter è oggettivamente carente. Non stiamo parlando di bellezza, categoria fortemente soggettiva, né di aspetti estetici. Si può anche disegnare come un bambino di tre anni (ma non è questo il caso, ovviamente), ma quando si passa sopra quello che si pensa che possa essere un oggetto con cui interagire, si deve visualizzare il suo nome a video quando si passa sopra l’oggetto, non venti pixel più a destra, l’immagine dell’interfaccia (guarda, parla, usa) non deve mai sovrapporsi alla frase verbo-oggetto-complemento del parser che appare in basso, i fondali con un punto di fuga lontano sono belli, ma devono poi essere gestiti adeguatamente con il proporzionamento progressivo degli sprite, gli oggetti e gli hotspot, infine, devono essere sempre chiaramente visibili e facilmente distinguibili.

Gli sprite del protagonista non sono ancorati alle parti camminabili

Si prenda ad esempio la seguente immagine, presa dai primi minuti di gioco:

Un fondale tipo

In questa immagine ci dovrebbe essere un quadro (sulla sinistra), un frigorifero (sulla destra) un fast food (sempre sulla destra in alto).

Gli sprite inoltre come si può meglio vedere nell’immagine successiva presa dalla stessa scena

Esempio di sprite

sono talvolta appiattiti (l’impressione è che siano direttamente disegnati sullo sfondo) e senza terza dimensione, pur essendo a tutti gli effetti interagibili, con un aspetto piuttosto irreale, come se fossero delle sagome di cartone appoggiate per terra.

Le cose, non capiamo perché, migliorano per la verità decisamente dal terzo capitolo, dove si nota un’accuratezza di realizzazione di fondali e sprite (ma con la comparsa di insopportabili hotspot di dimensione minima che danno luogo ad un intollerabile pixel hunting). La sensazione è che ci sia stato un progressivo miglioramento delle capacità di trasferimento in digitale dei disegni iniziali, senza che si sia tornati ad adeguare il livello qualitativo dell’intera avventura, o che i capitoli siano stati sviluppati da persone diverse e/o in tempi piuttosto distanti. Anche questo concorre a dare la sensazione di trovarsi di fronte ad un semilavorato piuttosto che ad un prodotto finito.

Un fondale ben disegnato e progettato.

Interfaccia

L’interfaccia è, strutturalmente facile e comoda da utilizzarsi. La gestione dei caricamenti (Salva-Carica-Esci) è implementata tramite menù a scomparsa visualizzabile posizionando il puntatore nella parte alta della schermata di gioco. Solo occasionalmente si verifica il caso di attivare involontariamente il menù, in genere gli hotspot non sono posti in quella zona dello schermo.

L’inventario, invece, è visualizzabile con il classico clic del tasto destro del mouse. L’inventario è – eventualmente, nel caso che il numero degli oggetti in inventario lo giustifichi – scorribile attraverso due tasti freccia dx-sx.  Questi tasti freccia soffrono anch’essi del difetto lamentato prima: quasi mai cliccando sopra la freccia (come invece viene naturale) attiverete lo spostamento, ma solo posizionandosi un po’ più a destra, fuori dalla immagine della freccia. Peccato che così facendo si rischia di far scomparire l’interfaccia dell’inventario. I verbi utilizzabili per agire sugli oggetti sono i medesimi disponibili per visualizzare gli hotspot a video. E’ possibile combinare gli oggetti in inventario tra di loro, semplicemente “draggandone” uno sull’altro; il fatto che esistano più schermate per visualizzarli forse rallenta (e alla lunga stanca, soprattutto nel “prova tutto con tutto”, pratica che purtroppo, come vedremo più avanti è drammaticamente necessaria) e rende poco pratico combinare un oggetto presente in una schermata con uno di un’altra.

La combinazione di oggetti, stranamente, non è simmetrica (se combinate A con B, con esito negativo, combinando B con A potreste avere successo). Questo potrebbe avere senso in casi  particolari come “martello” e “chiodo” , ma così non è sempre. Inoltre, può capitare che combinando un oggetto con un altro, molto spesso su un hotspot, non si abbia in risposta neanche una frase di default (quelle tipo “Non puoi utilizzare A con B”) il che non è molto “carino”; viceversa, per quegli oggetti che presentano in fase di combinazione con altro oggetto una frase di default, questa frase sarà sempre restituita, anche quando sarà combinato con un oggetto che dà luogo ad un risultato (nella fattispecie la creazione di un nuovo oggetto); cioè otterremo prima la frase di default, e poi la frase che descrive positivamente la combinazione fatta, a volte con espressioni discordanti.

Quella che sembra un po’ raffazzonata  è la traduzione dell’interfaccia, probabilmente è stato lasciato lo standard del modulo AGS. Questo “stona” perché per certi tratti dell’avventura il testo visualizzato a video è per metà in inglese (i verbi, le azioni e le preposizioni) e per metà in italiano (i nomi degli oggetti); anche qui ribadiamo che un minimo sforzo avrebbe consentito di raggiungere un risultato proporzionalmente molto maggiore del tempo perso.

L’ultimo comando generato resta sul video per tutto il tempo di un eventuale sequenza animata che ne consegua.

Come peccato veniale, ma non troppo, citiamo la poca leggibilità che alcune frasi a video presentano per la scelta non felice di contrasto tra il colore del testo e lo sfondo.

Altro fenomeno che avrebbe potuto essere facilmente evitato è l’artificiosità del passaggio tra una “stanza” e l’altra (ricordiamo che nel gergo delle avventure grafiche e non solo, la “room”, la “stanza”appunto, è un qualsiasi ambiente suddiviso in una o più schermate che sia liberamente esplorabile e che è collegato alle altre stanze attraverso delle “uscite”). Perché mai, se correttamente l’uscita di una stanza è evidenziata da “Vai al ponte”, tanto per fare un esempio, non posso passare all’altra stanza semplicemente cliccando sopra allo hotspot “Vai al ponte”, come qualunque altra avventura grafica? Invece è necessario aprire l’inventario, selezionare il verbo usa e cliccare sullo hotspot. Da rivedere senza riserve.

Suono/Musica/Doppiaggio.

Assente, come probabilmente ci si può aspettare da un’avventura amatoriale, il doppiaggio, ci concentriamo su effetti sonori e musica.

Gli effetti sono spartani ed essenziali, esiste un suono di default che ci avvertirà quando si è compiuta un’azione che dà luogo ad un risultato utile all’avanzamento dell’avventura.

Una piacevole sorpresa viene dalla musica, formata da brani liberamente reperiti dagli autori Bjorn Lynne e Kevin MacLeod che hanno rilasciato alcuni brani di loro esecuzione come file midi liberamente scaricabili senza necessità di pagamento dei diritti per fini non commerciali. Alcuni temi sono noti, come Chattanooga Choo Choo di Glenn Miller.

Ogni locazione ha la sua musica assegnata e, dato che non si persisterà a lungo in una stanza, alla fine la sensazione generale è piuttosto piacevole. Forse però si sarebbe potuto attingere ad una colonna sonora che avesse avuto di più un carattere comico.

Da segnalare, nel mezzo delle gag e battute di non eccelsa comicità, un piccolo gioiellino di filmato, citazione (volontaria?) del ballo degli scheletri di Monkey Island 2, della Skeleton dance di un cartone della Disney, e della canzone finale di Discworld 2That’s death” (a sua volta parodia di “That’s Life” di Frank Sinatra) interpretata appunto da uno scheletro. La canzone è un vecchio titolo anni  ’50 a firma di Fred Buscaglione, “Giorgio del lago Maggiore”.

Qui, non ho vergogna ad ammetterlo, il recensore si è rotolato dalle risate.

Veramente ben fatto ed ideato; è con questo stile e questo tipo di ironia che ci sarebbe piaciuto giocare tutta l’avventura; per il futuro ci si permette di consigliare di continuare in questa direzione. Per chi non avesse il tempo di giocare tutta l’avventura, ma vuole vedere questa piccola ma incisiva realizzazione, essa è presente come file *.wmv come tutti gli altri filmati nella cartella del gioco.

Enigmi.

Gli enigmi sono uno degli elementi strutturalmente imprescindibili di una avventura grafica. In Space Hunter ne abbiamo una grande quantità che si basano sul “prova tutto con tutto”, alla fin fine.

Non ci risulta ben chiaro ad esempio il perché un lucchetto che rifiuta di aprirsi scassinandolo con qualsiasi oggetto dovrebbe saltare sparandogli una caramella “ciancicata” fino a ridurla a forma di proiettile. O perché scarabocchiare con un pennarello rosso un dispositivo ad un incrocio per farlo andare in tilt?

O perché un copri fronte, senza alcun altra indicazione né visiva né testuale, dovrebbe riflettere la luce? (perché il coprifronte di Naruto è metallico? E che ne posso sapere io che vedo tutto ciò che è giapponese, tranne la cucina, come il fumo negli occhi? Almeno si metta un suggerimento quanto si fa “Guarda Coprifronte” con risposta: “E’ riflettente!”. Dall’immagine nell’inventario dell’oggetto non si evince nulla.) O ancora perché da un bretzel combinato con un jetpack rotto e poi con uno gnorkettino (!) si ottenga un jetpack funzionante.

“Enigma demenziale” non vuol dire “enigma assurdo”. In ogni momento per la risoluzione  si deve avere un indizio che ci possa far esclamare alla fine: “Ma certo, come ho fatto a non pensarci?”. Così come, quanto mi vengono assegnate le consuete “missioni” o “liste di cose da fare” (famose le tre prove per diventare pirata di Monkey Island) devo poter avere l’occasione di riepilogarle o sentirle ripetere, da un dialogo, da un appunto, o da un diario automatico. Ad aggravare la situazione, c’è il problema del non perfetto puntamento degli hotspot, unito ad un certo numero di hotspot millimetrici (pixel-hunting), che rende la risoluzione di alcuni enigmi puramente casuale.

Sia detto una volta per tutte: non riuscirete a venire a capo di Space Hunter senza consultare un walkthrough; ci è capitato di venire a conoscenza di alcuni oggetti da prelevare affetti da pixel hunting solo dalla soluzione presente sul sito, ed anche in questo caso avere difficoltà a puntare l’oggetto, perché oggettivamente invisibile o indistinguibile, sullo schermo (esempio, la freccia sul cartello turistico, o la roccia della talpa gigante).

Anche l’applicazione degli oggetti agli hotspot è discutibile: perché dei tappi per le orecchie funzionano sulle note fastidiose prodotte da un chitarrista punk, e non sul protagonista Kolt, se poi è Kolt che se le ficca nelle orecchie?

L’astrusità della maggior parte degli enigmi spezza parecchio l’andamento della storia: avremmo preferito senz’altro che ci soffermasse di più e si spendesse più tempo (lo stiamo ripetendo allo sfinimento) nell’aggiungere nei dialoghi, nei commenti emessi guardando gli oggetti dell’inventario e gli hotspot un maggior numero di indizi che rendessero più logica la risoluzione anche a discapito della durata complessiva di gioco.

L’avventura demenziale deve far ridere, non esaurire il giocatore nel rincorrere una logica (che può essere anche surreale, ma ci deve essere) che non c’è.

Storia.

La trama, a dispetto della natura amatoriale del titolo, è articolata e ricca di colpi di scena. Molto per sommi capi, il protagonista è Kolt, un cacciatore di taglie di cui nel prologo (in realtà presentato erroneamente come “Epilogue”, nell’intro) possiamo  rivivere il suo primo caso; tornati alla narrazione al presente, Kolt verrà “incastrato” da un criminale che riesce a far credere che Kolt abbia liberato tutti i criminali della città mettendosi dalla parte del crimine. Kolt dovrà dunque tra alterne vicende ristabilire l’ordine per riabilitarsi.

Gli spunti e le citazioni (un intero capitolo è ispirato a Dune) di film e classici del mondo noir e cyberpunk si sprecano. Sulla resa di uno dei fini di un’avventura grafica demenziale, cioè far ridere, abbiamo qualche perplessità; non solo alcuni riferimenti ci sembrano piuttosto legati a contesti e realtà abbastanza di “nicchia” (la Quanza (che supponiamo sia una traslitterazione di “kwanzaa”, festività moderna afroamericana), l’”Hannukà”, festività ebraica, o certa oggettistica ninja), ma in alcuni casi ci è sembrato che si facesse riferimento a vocaboli regionali (spaciuco) se non amicali o di comitiva degli autori.

L’avventura spesso non riesce a raggiungere il suo fine …

… di far ridere, marcando troppo…

Il problema è che le battute sembrano essere state buttate giù di getto e molte, nel migliore dei casi, supponiamo con l’intenzione di essere “aggiustate” in un secondo momento. Ci pare che questo, per la qualità e la maturità, sia un testo “adolescenziale”, con ciò intendendo un “prima opera”, sebbene esistano degli indizi che lasciano credere che si sarebbe potuto fare benissimo meglio. Anche qui, lo ripeteremo sino a farci sanguinare la lingua, si sarebbe dovuto avere la pazienza di spendere ulteriore tempo per studiare con più calma e in un momento di maggiore ispirazione molte delle battute.

Non basta l’assurdità o l’astrusità per fare comicità.

C’è uno stuolo intero di personaggi, alcuni dei quali dalle oggettive potenzialità comiche, che non vengono, nel nostro giudizio, adeguatamente sviluppati e sfruttati per veicolare la parte comica dell’avventura. Quello che difetta, intendiamo dire, è una maggiore regia che orchestri al meglio le interazioni e i dialoghi tra i vari personaggi e dia quel senso di “commedia” (niente di male se fosse “dell’arte”) che deve avere un titolo del genere. Non sappiamo desumere se si sia scritta precedentemente una sceneggiatura (sì, una sceneggiatura: fare un’avventura grafica non è, in linea di principio, molto dissimile dallo scrivere un film) e se tutti i dialoghi fossero stati buttati giù con carta e penna (o video e tastiera, adesso non stiamo a disquisire), ma da molti indizi ci pare proprio di no: e questo è un peccato, perché il gioco ne soffre molto: speriamo che questi difetti siano stati evitati nelle avventure prodotte in seguito, e se no, invitiamo l’autore a riprendere in mano con coraggio il codice e lavorare di pialla e lima, perché ne vale veramente la pena.

…la componente demenziale.

Anche se, a dire il vero, le cose migliorano, pur essendoci ancora dei residui di problemi un po’ in tutti i comparti, decisamente nell’ultimo capitolo, i dialoghi sono più scorrevoli, tornano alcuni personaggi incontrati precedentemente dando una profondità maggiore all’intreccio e fornendo ulteriori spunti comici, gli enigmi, pur restando di stampo demenziale, migliorano, restano purtroppo gli hotspot affetti da pixel hunting, la storia converge verso l’inevitabile inseguimento e sfida finale, certe battute un paio di sorrisi li strappano.

Considerazione e giudizio finale, tirando le somme: non è possibile considerare quest’avventura un prodotto finito, invitiamo l’autore/gli autori a riprenderla in mano e ripulirla dai difetti, perché ha ottime possibilità di uscirne fuori, pur essendo amatoriale, una buona avventura, a patto che si arricchiscano, in profondità, dialoghi e indizi e si correggano alcuni difetti grafici evidenziati sopra.

Questa sinceramente non l’ho capita. Quello accanto al protagonista è lo Yellow Budger che dovrebbe andare in tilt se ci scrivete sopra col pennarello rosso. Bello ed accurato il fondale; peccato che lo sprite lo percorra in maniera discutibile.

Lo scontro finale

Il quadro generale italiano nel quale Space Hunter si colloca, quello delle avventure grafiche comiche/demenziali amatoriali, per di più italiane, pur essendo sparuto, non è completamente deludente: possiamo rivolgerci a “La Terribile Minaccia degli Invasori dall’Audiogalassia”, ai vecchi titoli della Nexus Entertainment (Wonder World) e a quanto riuscite a trovare googlando “avventura grafica amatoriale italiana”.

Voto.

Ahahahah.

Ci cascate sempre.

Non metto voti.

Ma so che ho l’odiosa tendenza a fare il “professore”.

E’ che mi disegnano così.

Lost Horizon – Recensione – II parte

Suono/Musica/Doppiaggio.

La maggior parte delle musiche e degli effetti sonori è stata realizzata da Thorsten Engel .

Non so se abbia scritto anche la canzone quella cantata dalla ragazza nel  night club all’inizio dell’avventura (o se si tratti di canzone dell’epoca), ma è davvero notevole. Difficilmente le musiche hanno parte fondamentale in un’avventura, ma in questo caso lo hanno, eccome. Buona parte dell’atmosfera anni ’30 deriva dalla colonna sonora, davvero ben fatta. L’esibizione della ragazza di cui sopra è un piccolo gioiello di commistione musica/cinema/videogioco, di cui esistono pochi altri esempi, nel nostro genere.

Come show e videogioco a volte fanno rima

Il doppiaggio è svolto egregiamente, senza voler scendere in complimenti eccessivi, e la caratterizzazione linguistica dei personaggi è resa senza scendere in macchiette folkloristiche che avrebbero ridicolizzato l’effetto finale. Vale a dire l’ambasciatore inglese parla il suo forbito britannico, l’ufficiale nazista parla il suo accento tedesco duro e spigoloso, ma non vanno aldilà di quanto ragionevolmente ci si aspetterebbe senza scadere nel ridere.

La traduzione mi è sembrata piuttosto curata nel complesso, non mi è capitato di trovare svarioni grammaticali (tranne un raccapricciante “non so proprio a cosa servi”, che bonariamente supporremo trattarsi di un typo), anche se qua e là è emersa l’incertezza nella traduzione di alcuni hot-spot (ad esempio una “tinozza” al posto di una evidente “vasca”), dovuta probabilmente al fatto che ai traduttori deve essere stati sottoposti semplicemente i testi da tradurre, e non anche le schermate o il gioco da giocare (o non hanno avuto il tempo di visitare e controllare tutte le traduzioni in-game).

Enigmi.

Punto controverso, questo.

Fermo restando che Lost Horizo non inventa niente di nuovo, in nessuno dei suoi aspetti, ma semplicemente prende da quanto già esisteva e lo interpreta in modo, lasciatemelo dire, estremamente elegante, per quanto riguarda gli enigmi, beh, forse il pelo nell’uovo si riesce a trovarlo, e forse più d’uno.

Innanzitutto, l’inventario: a scomparsa, nel lato inferiore dello schermo, presenta, come al solito, la rassegna di tutti i vostri oggetti rappresentati da icone. Una bella funzionalità consente di cliccare su un’icona e trascinarla su un altro oggetto per poterli combinare – eventualmente – tra di loro; il problema è che questa funzione si rivela, all’atto pratico, fin troppo bella: non essendo l’inventario mai troppo affollato, nei casi in cui vi troverete senza idee, vi troverete a provare tutto con tutto, magari a casaccio o in maniera metodica esaurendo tutte le combinazioni del “prova X con Y”, per X,Y ε {inventario}, X =/ Y, e questa che era una pratica vecchia come il mondo, per carità, risulterà essere, tramite la comodità di cui sopra, un’operazione da svolgere in al massimo 30 secondi.
Per fortuna, ci troveremo davanti anche ad alcuni puzzle “veri”, ma mai “cerebrali”: ricostruzione di foto strappate, sbrogliare laocoontiche matasse di fili elettrici , oltre a tutte le possibili variazioni sul tema “aprire la porta chiusa”.

Un esempio di un puzzle di Lost Horizon

Solo un paio di piccoli pixel hunting (e forse usare questo termine è già esagerare) potrebbero mettersi sulla vostra strada verso la soluzione, ma tenete conto che vi sono varie possibilità del sistema, attivabili o disattivabili a piacere, per rendere l’esperienza di gioco più agevole, come l’ormai affermato sistema di visualizzazione di tutti gli hotspot.

Da elogiare la scelta di evidenziare gli hotspot, a passaggio del mouse, con delle belle scritte chiare e grandi su riquadro scuro, ideale per gli ipovedenti e i vecchietti come il sottoscritto che ormai cominciano a perdere colpi.

Un bel hotspot evidenziato come si deve.

In generale, Lost Horizon, per quanto concerne gli enigmi, mi ha ricordato molto Broken Sword: un’avventura che mette la giocabilità e l’esperienza d’avventura in primo piano rispetto alla difficoltà degli enigmi: chi ama scervellarsi per ore sulla risoluzione di un enigma dovrebbe tenersi alla larga da Lost Horizon. Spesso con LH l’azione da attuare è più che esplicita, piuttosto la difficoltà (se mai, come ho detto, vogliamo parlare di difficoltà) sta nel reperire gli oggetti che ci servono ad attuarla e a metterli insieme correttamente. In questo senso molti enigmi non si esauriscono in un semplice X+Y, ma coinvolgono più oggetti: X+Y+Z+… Ad ogni modo, per quanto semplici possano essere, sono divertenti da svolgere e sempre ben inseriti nella trama. Niente “giochi del quindici”, insomma, o papiri da decifrare attraverso caratteri esotici di alfabeti astrusi, magari numerici.

Storia.

Qui arriva il bello, il punto essenziale del contendere.
Per cosa giocate alle avventure grafiche?
Per la trama? Ma esistono quantità indefinibili di romanzi, film ed opere narrative là fuori, tutto sommato. Che bisogno c’è di affidarsi ad opere come le avventure?
Il fatto è che queste combinano più generi in modo inesplicabile: il gioco, la narrazione, l’appagamento visivo, la musica, l’enigmistica, se volete.
E Lost Horizon lo riesce a fare in maniera magistrale, mettendo in testa, giustamente, la narrazione ma senza svilire anche gli altri aspetti a cui accennavo. La scelta di mettere in mano ad una scrittrice, Claudia Kern, in primis, la sceneggiatura si rivela esplicitamente vincente. Sin dalle prime fasi del gioco, e senza cadute di interesse in tutto il suo svolgimento, la sensazione di trovarci di fronte a quella sarebbe potuta essere a buon diritto la trama di un film è mantenuta viva dallo stile adottato, dai frequenti cambi di scena, dall’adozione di inquadrature tipicamente ammiccanti al mondo del cinema. Anzi, a dirla tutta, Lost Horizon potrebbe essere un gioco tratto da un film.

La storia, in breve. Fenton Paddock, ufficiale dell’Esercito Britannico congedato con demerito per un fatto che si chiarisce nel corso dell’avventura, viene incaricato dal governatore locale di recuperare le tracce del figlio disperso, fra l’altro suo carissimo amico. Nell’affrontare questa missione, Fenton troverà sulla sua strada antiche forze esoteriche e l’esercito nazista interessato adentrarne in possesso. I fatti si basano in parte su elementi storici ben precisi e documentati: in effetti il regime nazista inviò una spedizione in Tibet negli anni ’30, con obiettivo l’individuazione delle tracce dell’origine della razza ariana (sic), supposta derivante da una razza semidivina che prima aveva dato origine alla civiltà di Atlantide (ri-sic), e poi si era spostata nel Tibet. Questa civiltà avrebbe ivi fondato il mitico regno di Shambala , e la Deutsches Ahnenerbe – Studiengesellschaft für Geistesurgeschichte (Eredità tedesca degli antenati – Società di studi per la preistoria dello spirito), fondata niente meno che da Himmler in persona nel 1935, si era votata, fra le altre cose, alla sua ricerca.
In questa accurata ambientazione storica, però, troviamo anche le Olimpiadi di Berlino (poteva esimersi Fenton dal far danni anche lì? ma scherziamo?), e qui c’è un piccolo scivolone di date: Le olimpiadi tedesche sono del 1936, mentre la spedizione tedesca in Tibet risale al 1938-39. Poco male, il giocatore medio non risentirà dell’anacronismo.

Ritornando a bomba alla trama, e ai suoi personaggi, non manca, per tutti i romanticoni, anche la comprimaria femminile…

Notate la mano... intendevo dal punto di vista grafico, che avete capito!

Sempre restando sui personaggi, Fenton Paddock si rivela un simpatico scavezzacollo dedito un po’ troppo ad alzare il gomito e soprattutto alle donne: tutti gli stereotipi cari al cinema noir. Impossibile non pensare, e sarebbe un peccato se non lo facessero, pensare ad un secondo episodio, piuttosto che lasciare un personaggio così carismatico nel cassetto.

Non pensare al ciclo di Indiana Jones, è praticamente impossibile: antichi manufatti, continui cambi di scenario, fughe precipitose, inseguimenti, una donna come sparring partner, frequenti viaggi da una parte all’altra del globo, templi da visitare sono gli elementi fondanti dell’avventura.

Voto.

Aridaje co’ sto voto…

Lost Horizon – Recensione – I parte

Grafica.

Credo che sotto questo aspetto ci si trovi di fronte alla migliore espressione delle avventure grafiche in ormai più di una ventina di anni di vita del genere. Lost Horizon raccoglie perfettamente il testimone di una lunga fila di predecessori dai fondali dipinti a mano, puliti, colori pastello, che invitano ad immergersi nella fantasia del racconto.

Un esempio della grafica dei fondali di LH. Non ricorda un po' lo stile di Broken Sword?

Altro aspetto importante, che riprenderemo senz’altro quando si parlerà della storia, è come lo stile generale di filmati, fondali, riprese della telecamera, sia improntato al mondo del cinema. Tanto per dare un’idea, guardiamo come siamo accolti dal menu principale del gioco:

Acquistate il biglietto ed entrate nel cinema.

Come vedete, è fin troppo evidente l’intenzionalità di volere immergere il giocatore nell’atmosfera di una sala cinematografica; i riferimenti ai film di Indiana Jones fioccano continuamente, non ultima la schermata che spesso ci troveremo di fronte con la cartina geografica attraversata dal tracciato rosso di un tragitto che stiamo percorrendo. Le animazioni sono estremamente fluide e curate, né altrimenti sarebbe potuto essere se si voleva riprodurre al meglio la sensazione di agire all’interno di un film. Quello che però si deve rimarcare (e vale per un discreto numero di avventure, non solo questa) è il limite della qualità degli artisti grafici (o forse dei motori grafici)  nell’accuratezza della riproduzione dei personaggi: come cartina al tornasole, si può usare ad esempio la mano: osservate come vengono realizzate le mani e capirete il grado di dettaglio raggiunto.  Anche il movimento labiale non è che sia un bel vedere, soprattutto nelle scene animate.Non mi piace dilungarmi molto sulle questioni tecnico-grafiche, pur parlando di avventure – per l’appunto – grafiche: tuttavia, vale la pena ribadire che Lost Horizon offre un’esperienza da questo punto di vista di completa soddisfazione: esplorare gli ambienti e le locazioni è un piacere per gli occhi, e si trova appagante scoprire una dopo l’altra le ambientazioni riprodotte dannatamente bene, e a quanto pare, in maniera estremamente documentata: è evidente che questo abbia comportato un certo lavoro di ricerca: o voi sapete al volo riproporre un locale anni ’30 dell’Hong Kong dell’epoca?

Interfaccia.

Oh, beh, la vostra solita interfaccia con cursore intelligente tasto sinistro “guarda” – tasto sinistro “usa” (che ovviamente cliccando su un personaggio diventa “parla”). Sotto questo punto di vista niente di nuovo sotto i ponti. E’ possibile saltare frasi di dialogo e filmati col tasto destro. Anche per l’inventario niente di particolare: a scomparsa nel lato inferiore dello schermo. Avrete la possibilità di combinare gli oggetti tra di loro (ma di questo voglio parlare diffusamente nella sezione “Enigmi”). Anche in questo caso troviamo la personalizzazione in chiave cinematografica dell’interfaccia di salvataggio/recupero delle partite:

Ogni fotogramma, un salvataggio.

Il gioco assegna automaticamente un’icona, un nome, e l’orario ad ogni salvataggio. Non mi pare che vi sia un limite al numero di salvataggi da effettuarsi. Anche l’interfaccia per i dialoghi è quanto di più classico si possa trovare: lista di frasi tra cui scegliere cliccando. Inutile dilungarsi oltre su questo punto: se doveste giudicare Lost Horizon dall’interfaccia, sarebbe quanto di più comune possiate pensare.

Alla prossima volta sulla parte cicciotta della recensione, ossia Enigmi, Storia, Musiche.

La demo di Gray Matter

Liberamente scaricabile dal sito ufficiale, cuba circa 1,7 GB. Di solito non mi affido alle demo, e preferisco “rischiare” comprare a scatola chiusa. Quando poi si tratta di progetti dove è coinvolta Jane Jensen, figuriamoci. Bene, dopo avere atteso l’interminabile installazione, che si è presa cura di installare non so cosa del framework di MS .NET (che già era installato) e dell’SDK di DirectX, il risultato non è stato esattamente da ola.

La demo è in cinque lingue, fra cui anche l’italiano, e vabbé. Pur giochicchiando distrattamente, si è evidenziato qualcosa da correggere (speriamo che sia ancora in corso la fase di betatesting), tipo un “armadio”, probabilmente un “wardrobe”, che era sicuramente da tradurre in “guardaroba”, dato che si tratta di una cabina armadio vera e propria (e forse qualcosa di più di una semplice cabina). Il filmato introduttivo non ha molto al momento di “filmato”, essendo, a voler essere buoni, un fumetto animato (ma già Gabriel Knight ci aveva abituato a cose simili, anche cartacee, non è vero?)

Il filmato introduttivo non brilla per impiego di risorse hw

Il gioco sembra far potentemente uso delle risorse hardware del sistema senza un apparente beneficio a livello di animazione, di modellazione dei personaggi (fatto salvo il culo (scusatemi la franchezza) di Samantha Everett, che per quanto virtuale, fa la sua porca figura),

De gustibus non disputandum est.

e di fluidità dei comandi, di risposta agli stessi e dei movimenti.

Nelle schermate di passaggio e di caricamento, sono riportate in basso alla schermo alcune notizie storiche, che il giocatore leggerebbe pure con piacere, ma che difficilmente riesce a completare, dato che il tempo non lo consente.

Qui Samantha deve trovare il suo coniglietto. Paura!

Anche il motore grafico forse ha ancora bisogno di qualche revisione: mi è capitata una Samantha la cui coda di cavallo e il colletto della camicia erano anteposti al viso, ma potrebbe essere attibuibile alla particolare configurazione di gioco che avevo scelto, assai alta.

Impossibile giudicare la trama, del tutto assente, anche se il continuo riferimento a fatti particolari dei personaggi nelle descrizioni degli oggetti e dell’ambiente circostante lascia intravedere una profondità di sceneggiatura, che è il minimo sindacale che uno si aspetta da una avventura alla Jane Jensen (e sotto sotto il motivo per cui la compriamo). Si esplora molto, in questa demo, null’altro, e fra l’altro non si può salvare.

Insomma, se Gray Matter dovesse uscire in queste condizioni, purtroppo, sono sicuro che avrebbe molte difficoltà ad affermarsi.

E’ nata una stella…

… e il suo nome è Fenton Paddock.

Lost Horizon, recente uscita della Deep Silver per opera della Animation Arts (la stessa dei due Secret Files), si rivela essere una ottima avventura grafica nella migliore tradizione del genere. Prima di andare al punto e analizzare come tutte le recensioni che si rispettino ogni singolo aspetto dell’opera, do subito un’impressione finale, così chi non ha pazienza di leggere il resto se ne va a letto subito, con la sua risposta bella sotto il cuscino: Lost Horizon non innoverà niente, sarà un pot-pourri di stereotipi del cinema d’avventura archeologica alla Indiana Jones e all’omonimo film di Frank Capra, avrà pure qualche sbavatura in termini di cronologia, ma è dannatamente una bella avventura che svolge il suo lavoro: avvince, diverte, fa giocare. I continui colpi di scena e di ambientazione (frequente negli spostamenti la citazione dai film di Indiana Jones della linea rossa che traccia il percorso dell’aereo sulla cartina geografica) dinamizzano (si dice “dinamizzare”? boh, neologismo.) la trama proprio come in un film; d’altra parte, i numerosi richiami al mondo cinematografico cominciano sin dalla schermata principale, raffigurata come l’ingresso di un cinema: ecco, la Animation Arts ci invita ad entrare per assistere alla loro nuova opera!; anche alcune zoomate da campo lungo a campo medio, in alcune occasioni, dando l’impressione di assistere ad un film.

La confezione, che appaga l’occhio aprendosi a libro con una bella figura tridimensionale di un aeroplano,

Non si vede, ma vi giuro che l'aereo è tridimensionale!

è completa di manuale e poster-gadget; questo genere di cose, alla lunga, ritengo che paghi ed attiri gli appassionati (anche se, e questo ci tengo a sottolinearlo, ciò rappresenta solo la cornice, rispetto al quadro. E il quadro deve essere bello, altrimenti anche la più elegante cornice lascia la crosta semplicemente una crosta.)

Discreta anche l’idea di inserire nel dvd alcuni bonus sbloccabili nel corso del gioco: oltre alla possibilità di rivedere le scene animate già giocate, anche alcuni puzzle e la possibilità di rigiocare il gioco nella versione dimostrativa presentata originariamente.

Continuiamo con i dettagli la prossima volta.

Rhiannon (la conferma) – II

(Continua…)

Grafica.
Niente di eclatante. A volere essere buoni, si intuiscono le buone intenzioni che stanno dietro alla realizzazione dei fondali e dell’ambiente circostante, ma con le sole buone intenzioni non si fa un’avventura grafica decente. In prima persona, poi …

Vi sono locazioni la cui realizzazione è quasi imbarazzante, per un gioco che vuole essere commerciale; per esempio, trovate che questo sotto sia plausibile come desktop di un computer dei nostri giorni? L’icona a busta in alto a sinistra è la posta elettronica, quella in basso a destra è lo shutdown di sistema. Punto.

La scusa che il team di sviluppo sia formato da tre persone lascia il tempo che trova, dato che siamo sul livello di DarkFall, che ormai risale a 7 anni fa (eh sì, passa, il tempo…), è un “one man game” e già a quei tempi veniva definito “una serie di schermate in Powerpoint”….

Un esempio della grafica degli ambienti di Rhiannon

Interfaccia.

Solo un po’ di sforzo in più e forse non mi sarei potuto divertire ad infierire così tanto. Schermata del menu resume/salva/carica/esci che più tradizionale e statica non si può.
Inventario a scomparsa sul lato alto della schermata.
Il cursore che assume l’aspetto di una lente d’ingrandimento ci segnala che è possibile zoomare su un particolare.
Dove è possibile svolgere un’azione utilizzando un oggetto dell’inventario il cursore cambierà nel simbolo degli ingranaggi.
Sembra essere ritornati indietro di dieci anni; per spostarsi c’è il solito, odioso, insopportabile sistema del movimento “quantizzato” a schermate fisse: avanti, destra, sinistra, dietrofront, se ci dice bene sopra, sotto, e qualche spostamento in diagonale.
Non vi viene in mente qualche altro tipo di gioco? Ne parliamo più avanti. Non esiste, come invece in molte avventure in terza persona, una mappa che consenta di eliminare i tempi morti dello spostamento da una locazione all’altra (altrimenti la durata del gioco crollerebbe drasticamente).

Suono/Musica/Doppiaggio.

La musica, presente in pochissime locazioni ed occasioni, ad essere buoni si può considerare non valutabile.
Ho giocato la versione originale inglese; esiste una traduzione italiana che, anche se fosse ottima (e non ho motivo di pensare che non lo sia, intendiamoci bene, anche se non condivido in prima battuta le citate difficoltà di traduzione di alcuni brani in gergo giovanile), non credo riuscirebbe a ribaltare da sola la valutazione di quest’avventura.
I suoni, legati nell’ambiente esterno al fruscìo delle foglie, al cinguettìo degli uccellini, allo scorrere dell’acqua nei vari corsi e laghetti, sarebbero senza infamia e senza lode, se non fosse per quell’ossessionante biascichìo “rhiannonrhiannonrhiannonrhiannon” di alcune locazioni (tra cui il menu delle opzioni) che fa venire voglia di prendere a randellate il computer.

Enigmi.

Se trovate divertente andare in giro per la casa e dintorni alla ricerca di oggetti (o eventuali surrogati) per completare ben quattro rituali (i quattro “branches”, rami), beh, siete accontentati; la combinazione di oggetti dell’inventario è assente; pullulano gli enigmi di ricerca di chiavi/combinazioni per aprire porte, casseforti, lucchetti. La maggior parte delle volte si tratterà di dover trovare un oggetto o una serie di oggetti da utilizzare per un unico scopo (quasi sempre, una volta utilizzati, scompariranno dall’inventario). Uno dei problemi riscontrati è legato anche all’interfaccia: spesso non sarà immediatamente ovvio come utilizzare o combinare gli oggetti collezionati, e le informazioni raccolte dai numerosi documenti ritrovati qua e là potranno essere non solo ambigue, ma anche fuorvianti: così è ad esempio successo per un semplice lucchetto con combinazione a quattro cifre, la cui soluzione avrebbe dovuto essere, in teoria, parte di una data. Da censurare in modo inequivocabile è la scelta di non consentire di raccogliere un oggetto se non quando effettivamente se ne ha bisogno: se tu (sviluppatore) mi doni il superpotere di avere tasche di capienza infinita, e poi mi privi della libertà di raccogliere anche solo da terra tutto quello che voglio, hai creato un aborto, un superuomo tetraplegico. Viene da sé che questa non è una scelta dettata dalla ricerca di una maggiore aderenza ad un comportamento realistico, ma un escamotage per assicurare maggiore longevità al gioco, assieme alla mancanza di scorciatoie per raggiungere le singole locazioni. Difficile che riusciate a non consultare la soluzione per raggiungere il finale, e questo quasi mai per limitatezza del giocatore, ma per astrusità nell’elaborazione e progettazione degli enigmi.

Storia.

La vostra solita storia di una casa infestata, con l’aggravante della mancanza sostanziale di un valido motivo per essere sempre completamente da soli: anche nelle poche occasioni in cui potreste incontrare il postino, ne avvertirete la presenza solo per un clacson esterno, o lo sgommare dell’auto. Il vostro alter ego è un essere invisibile che non riesce neanche ad avere la propria immagine riflessa allo specchio (siamo forse un vampiro, chi lo sa).

Inutile sforzarsi ad affacciarsi allo specchio, non vi vedrete mai riflessi.

Se invece di fantasmi, ad infestare la casa fossero scarafaggi, forse l’intreccio sarebbe più interessante. (Badmojo docet)
In breve, l’inconsistente canovaccio: siete un tale Chris, amico dei Sullivan, una famiglia che ha scelto di acquistare una vecchia fattoria (ia ia oh! …ehm…)

Una parte della tenuta dei Sullivan

e di ristrutturarla, il quale ha accettato di custodire l’abitazione durante l’assenza della famiglia per un periodo di vacanza. Perché i Sullivan hanno deciso di “staccare”? Anche per far riprendere la figlia Rhiannon, un po’ sconvolta dalle manifestazioni sovrannaturali da lei ripetutamente denunciate ai genitori: bisbiglii notturni, visioni inquietanti, ed ovviamente “rhiannonrhiannonrhiannonrhiannon”.
Ma porca miseria, glielo volete dire a quel povero diavolo che la casa è infestata? Lui si “vendicherà” ovviamente andando a frugare in ogni dove, leggendo diari nascosti e posta privata, violando dunque uno dei primi diritti dell’uomo senza dei validi motivi. Premesse decisamente sgangherate non possono che portare ad un succedersi degli eventi di pari segno: le quattro storie delle quattro famiglie che si sono succedute nella zona in epoche diverse verranno portate avanti in maniera discontinua e non omogenea, con scatti e balzi avanti narrativi poco efficaci.
Vi sono non poche incongruenze anche nella realizzazione degli ambienti in relazione alla storia: direste ami che questa stanza, per quanto dotata di una porta di metallo, si spera, a tenuta stagna, è sopravvissuta per un secolo in questo stato, in un tunnel parzialmente allagato?

Una stanza sotterranea di un secolo fa conservata perfettamente per voi

E vi aspettereste di trovare, rigogliosa come quarant’anni fa e passa, una coltivazione clandestina di marijuana?

Le coltivazioni di marijuana, come è noto, si annaffiano da sole

Il gioco, se mai si poneva come obiettivo di essere un’avventura “di paura”, fallisce miseramente anche in questo: le manifestazioni che dovrebbero suscitare l’atmosfera “horror” si esauriscono nell’arco del primo capitolo, e la sensazione di timore che dovrebbe pervadere la nostra esplorazione della casa e degli ambienti circostanti, lascia prima il posto alla stessa paura che si prova durante una scampagnata, e successivamente ad un senso generale di torpore videoludico. Non so poi chi possa appassionarsi alle leggende e alla mitologia gallesi: al sottoscritto, che pure è generalmente tollerante e magnanimo nei riguardi delle avventure grafiche, non è capitato. Senza arrivare a tirare in ballo Jane Jensen, l’inventiva di Jonathan Boakes, che pure è uno che tende ad arrangiarsi, è di ben altro pianeta.

Voto.

Ma quale voto.
Sarete piuttosto voi disposti a fare voto di castità (a tempo determinato, s’intende) purché non vi capiti di imbattervi di nuovo in qualcosa del genere.
Amanti delle pallosissime avventure in soggettiva fine anni ’90 – primi anni 2000 della Arxel Tribe, Microids e quant’altro, questo titolo fa per voi.
Misantropi incalliti, idem.
Tanto per capirsi: Necronomicon (Microids, 2001) era tecnicamente superiore (almeno potevate girarvi sul posto a 360°) e parlare, ogni tanto, con qualche anima viva.
Dal tipo di modalità di spostamento (W-E-S-N-U-D), dal livello di interazione e di dialoghi, e dalla quantità di testi da leggere, e soprattutto dalle scelte grafiche effettuate, si può dire che giochi come Rhiannon assurgono a buon diritto come gli eredi diretti delle avventure testuali.

In sintesi, la gioia più grande che potrete trarre da Rhiannon, sarà disinstallarlo.

Rhiannon (la conferma) – I

Può mai valere la pena condurre a termine un’avventura grafica (ma lo stesso vale per un romanzo, un film, un’opera lirica) che già a metà si è rivelata deludente e poco rispondente alle aspettative, magari sottraendo tempo all’ultimo acquisto che giace lì sul mobile? La risposta a questa domanda che più retorica non si può, è sì, perché giocare le “schifezze”, tanto per usare una scala da due o tre valori, dà modo di apprezzare di più le perle vere di questo mondo così variegato.

La parola che meglio definisce l’esperienza di gioco che ho provato con Rhiannon – Curse of the Four Branches (giocato in versione originale inglese), è “noia”.  Noia per un’interfaccia che poteva essere sicuramente ideata meglio, in particolar modo in occasione della manipolazione di alcuni oggetti ed enigmi; noia per l’ennesimo esempio mal riuscito di raccolta degli oggetti “solo quando occorrono veramente”; noia per quel senso di non sapere esattamente cosa si debba fare che assale talvolta il giocatore sommerso dalla quantità di indizi e di documenti da elaborare (e “digerire”); noia per la mancanza quasi completa di colpi di scena e per la monotonia degli ambienti (né sopperisce in alcun modo a tale difetto il graduale rilascio dell’accesso ad alcune locazioni); noia per una trama che non riesce mai ad essere veramente avvincente e a catturare la simpatia del giocatore per le vicende della(e) povera(e) Rhiannon.

La sensazione di “avere perso tempo” mentre intanto sullo scaffale titoli ben più “sugosi” ed immediatamente accattivanti aspettavano pazientemente, è immediatamente dietro l’angolo una volta (finalmente!) aver assistito al sospirato (e moscio)  finale.

(Continua…)

Il Mondo Sussurrato (The Whispered World) – III parte

Suono/Musica/Doppiaggio.

La critica straniera, in particolare quella anglofona, ha mosso serie riserve sulla resa delle voci (il doppiaggio originale è in lingua tedesca) e sulla localizzazione dei personaggi: la voce di Sadwick viene descritta come “lamentosa” (Gamenexus), “noiosa” (Hexus Gaming), “dilettantesca” (JustAdventure).
Diavolo, è un ragazzino pagliaccio affetto da depressione, ci può anche stare che abbia una voce sgradevole, no?
In effetti, al giocatore italiano medio (chi è? boh…) non dovrebbe fare né caldo né freddo, ed ho trovato il doppiaggio in inglese più che adeguato: il lavoro è stato svolto presso studi britannici da professionisti (e non come capita a volte da noi in Italia da … meglio lasciare perdere).
In generale la traduzione è “in un buon italiano”, il che ai giorni nostri è tutt’altro da sottovalutare e da dare per scontato; dai credits sembra di capire che la traduzione sia stata curata direttamente dalla Germania e “controllata” da qualcuno che gira dalle parti di AdventuresPlanet (una tirata d’orecchie!); quello che forse lascia un po’ a desiderare è la “localizzazione” vera e propria, questione che è tutt’un altro paio di maniche rispetto alla traduzione: si tratta di adattare il testo alla realtà culturale, sociale, etc etc. della lingua di arrivo.

Ci sono due esempi che mi piace citare.
In un caso c’è uno scambio di Sadwick con un personaggio, Baldo, che per vari motivi finisce sempre per alzare il tono della voce, che in inglese suona come:
S: “Ehi, you have a mouse!”
B: “Yes, I have a mouth…”
B: “…AND I MUST SCREAM!”
che rappresenta veramente una bella parodia/citazione di “I have no mouth and I must scream”.
Beh, viene resa in italiano come:
S: “Ehi, la tua parete è rotta!”
B: “Certo che ho una bocca…”
B: “…E DEVO URLARE!”
che forse fa perdere sia il gioco di parole originale, sia il riferimento. Forse si poteva pensare a qualcosa di meglio.

Ehi, you have a mouse...

Yes, I have a mouth...

...AND I MUST SCREAM!

Il secondo caso è la già citata, e mancata, traduzione di “C’è un buco nel secchio, Arturo , Arturo…” che viene inesplicabilmente lasciato in inglese, per quanto venga puntualmente canticchiata nel sonoro dal protagonista.

Questi due esempi, insieme con il fatto che la versione italiana sia stata pubblicata con degli evidenti problemi grafici e di giocabilità che coinvolgevano anche la traduzione, (fra tutti un bug tale che selezionando da una scelta di frasi di dialogo “fischi” si finiva per parlare di “fiaschi”), problemi completamente risolti da una patch rilasciata “un po’ di tempo” dopo la pubblicazione dell’avventura, cosa che non ha fatto per niente piacere ai primi acquirenti, attratti dal notevole hype che circondava TWW) fanno supporre che non ci sia stato un collaudo dei testi “in game”, o che se c’è stato, non sia stato molto approfondito.

Menzione particolare per le musiche della colonna sonora, a cura della Periscope Studio Hamburg, che niente hanno a che fare con ciò che ci si potrebbe aspettare da un’avventura grafica cartoonesca e comica: sono profonde, incisive ed accompagnano in maniera mai noiosa o stancante le vicissitudini del clown triste. Il fatto che abbiano le mani in pasta nel prossimo “Gray Matter” di Jane Jensen, lascia ben presagire per questo titolo.

Enigmi.

E qui, nel bene e nel male, entriamo nelle questioni cruciali.
Nel senso che gli enigmi (i quali, se si dovesse comporre la ricetta di un’AG tipo, insieme alla storia e alla grafica, rappresenterebbero i tre elementi che caratterizzano più degli altri un videogioco di questo genere), sono un aspetto veramente controverso di TWW.
Innanzitutto il problema del pixel hunting che, inutile nascondersi dietro un dito, c’è; questo viene parzialmente risolto dalla barra spaziatrice che fa apparire a schermo le aree interagibili, perché il giocatore “duro e puro” subisce con frustrazione il dover ricorrere a qualsiasi tipo d’aiuto; d’altra parte, se non ricorre alla barra spaziatrice, può incorrere nel pixel hunting, quindi qual è il male minore?
Viene però da dire che di pixel hunting hanno sofferto anche alcune tra le migliori ag quindi…

Ritornando a bomba sull’argomento, gli enigmi sono estremamente vari con qualche variazione sul tema (sì, ci sarà anche qui un enigma stile “gioco del 15”, spiacente; ed anche l’ormai trito e ritrito enigma stile “chiave nella toppa e giornale sotto la porta”; e dovrete anche risolvere problemi di scacchiera, temo), ma in generale, sono estremamente vari e di soluzione poco immediata; difficilmente ve la caverete combinando in inventario l’oggetto A con l’oggetto B, saranno spesso necessari più passi; certo, dovrete mettervi a raccogliere tutti gli oggetti che vi capitano a tiro, anche quando non sapete perché dovreste prenderli, ma, ehi! questa è o non è un’avventura grafica? e allora. Se non sapete perché dovreste prendere da terra un pezzo di corda, se proprio volete essere realisti, non lo prendete e ritornate indietro quando avrete capito cosa farci; o se lo prendete, non andate poi a lamentarvene in giro in tutte le recensioni come se il vostro (biasimevole) comportamento fosse un difetto del gioco.
Va detto assolutamente che alcuni enigmi però sono assolutamente fuori di senno, ma qui entriamo in tutt’altro tipo di questione, se cioè le ag di tipo demenziale, quelle in cui si finisce per provare ad usare tutto con tutto siano da rigettare o da apprezzare. Una volta (e quando dico una volta, intendo almeno quindici anni fa), se gli enigmi non erano abbastanza complicati, un recensore poteva arrivare a stroncare un’ag; Broken Sword: The Shadow of the Templars venne criticata duramente sia per gli enigmi praticamente inesistenti (per i parametri dell’epoca) sia per la difficoltà dell’unico, in pratica, enigma che metteva alla prova il giocatore, quello della capra.
Fra gli enigmi peggio congeniati, può essere citato, senza troppo spoilerare, un macchinario presente in una locazione che scopriremo in un secondo momento, in cui viene richiesto di utilizzare informazioni che avevamo già dall’inizio dell’avventura, ma che sono completamente slegate da ogni relazione con l’ambiente descritto. Insomma, più o meno come se per sbloccare la cassaforte di Bill Gates vi fosse richiesto di inserire un codice corrispondente al numero di cellulare di un vostro cugino.
Incontreremo delle rivisitazioni/citazioni di vecchi classici, come quando entrando da una porta, sbucheremo inaspettatamente da un ‘altra, e così via (il villaggio di Monkey island 1), e grazie al trasformismo di Spot, dovremo sbrigarcela come eravamo soliti fare con i Gobliiins. Non mancheranno enigmi di dialogo, macchinari da far funzionare (no, niente roba alla Myst!) ed uno spelling a base di rutti che sono sicuro, farà sbellicare dalle risate anche i più riottosi.

Storia.

Ma di solito nelle altre recensioni non si parla della trama all’inizio? Certo, ma questa non è una recensione in senso proprio; e non è neanche come le altre; e forse non è neppure una recensione.
L’elemento per cui più vi affezionerete a TWW (o per cui la detesterete) sarà sicuramente la trama, che vi porterà forse a rigiocarla per scoprire come erano stati resi determinati dialoghi o caratterizzazioni alla luce del finale.
In TWW c’è una commistione tale tra temi demenziali, psicologici, epici e drammatici, come non si vedeva forse da Zork Nemesis (e qui l’analogia tra le due avventure, altrimenti distanti anni luce, finisce).
Un breve riassunto della trama: Sadwick, clown girovago, membro dell’esigua compagnia circense formata dal fratello Ben e dal nonno, due carri e Bruno, un pachidermico lucertolone addetto al traino della carovana, soffre di depressione e di un ormai ricorrente incubo nel quale si vede raffigurato mentre incontra un’enorme faccia bianca parlante ed assiste alla fine del mondo. Scoprirà ben presto che questi sogni non sono completamente frutto della sua mente, e verrà chiamato a salvare il suo mondo minacciato dalla distruzione incombente. Per adempiere alla sua missione, vagherà per le terre di Silentia e arriverà sino alla reggia di Corona, circondata da orde della razza degli Asgil, incontrando bizzarri e coinvolgenti personaggi, ben caratterizzati, che conquisteranno senza dubbio un posto nel vostro tenero cuoricino. (Sì, vi sto prendendo in giro; era semplicemente per vedere se mi stavate seguendo o no, vi avevo visto calare un po’ la palpebra…)
TWW è sicuramente una delle avventure degli ultimi 5-6 anni, dai tempi di Syberia, che presenta, pur nella continuità, delle fresche innovazioni nell’intreccio, iniettando sane dosi di poesia, nell’accuratezza degli scenari ma non solo, e provocatorie metafore nell’impianto narrativo. Il pagliaccio stesso, depresso e dal viso emaciato, produce da solo una serie di contrasti e dissonanze che vengono spalmate lungo tutto il percorso del racconto, che se da una parte non può dirsi certamente serioso, ciononostante non riesce mai ad essere completamente e solo demenziale.

Ultimo apprezzamento, per chiudere: l’edizione italiana viene proposta con un packaging molto elegante, con apertura a libretto, e manuale completamente tradotto in italiano, ad un prezzo, tutto sommato, onesto: € 20,00 (vabbé, € 19,90). Installate assolutamente la patch, altrimenti avrete un pessimo approccio di gioco.

Voto.

Ma per favore, ancora con il voto?
Mica state leggendo The Games Machine

Il Mondo Sussurrato (The Whispered World) – II parte

[continua…]

Grafica

Non so dove avevo letto (da un po’ tutte le recensioni, in realtà) che questa era un’avventura “in 2D”, termine che dovrebbe essere ormai bandito da ogni recensione moderna, visto che personaggi, fondali e piani di prospettiva ormai vengono completamente elaborati attraverso strumenti software che niente hanno a che vedere con gli strumenti a disposizione negli anni ’90 (e già allora iniziava ad affacciarsi nel campo delle ag il 3D – una fra tutte, Grim Fandango).
Bene, ho capito dopo una semplice indagine, da dove traggano questa fondata convinzione: non credo da una propria abilità di discernimento, quanto dal video del “making of” , e, se si deve prestar fede a quanto asseriscono gli autori stessi, questa E’ un’avventura grafica in 2D, per questioni di budget.
Sono rimasto sbalordito nel saperlo, questi ragazzi sono riusciti a rendere cose che si fanno in due secondi in 3D, con una terza coordinata prospettica, come la resa dell’effetto ombra del personaggio e la riduzione delle dimensioni dello sprite verso l’orizzonte dello scenario, per non parlare dell’illuminazione estremamente naturale degli stessi scenari fissi e fatti a mano, che non fanno sentire la mancanza di altre angolazioni e “telecamere” aggiuntive.

Esempio 3D

Potrebbe veramente sembrare uno scenario realizzato in 3D, invece...

Ma tanto voi lo sapete, la grafica in un’avventura grafica, non conta niente.
Come si usa dire delle dimensioni in altri contesti…

I fondali sono a 1024×768 pixel e lasciano trasparire una profondità artistica ed una accuratezza non usuale per il genere. Voglio dire, c’è qualcosa di più che non la semplice professionalità, c’è quasi amore in quello che viene proposto. Lo si sente, traspare da tutti i pori della schermata.

Quello che può essere colto invece come pelo nell’uovo sono le animazioni, in primo luogo quelle delle scene animate, decisamente “sfocate” e poco definite rispetto alla definizione dei fondali. Ma, dal momento che mi si dice che anche queste siano realizzate interamente a mano (come si facevano i cartoni animati una volta, insomma), mi sento quasi in imbarazzo a dargli addosso.

Interfaccia

Oh, beh, facile a dirsi.
Full Throttle.
O Monkey Island 3.
O (a volte ritornano) “A Vampyre Story” od anche il recente “Ghost Pirates of Vooju Island”, insomma dovunque abbia messo le mani Bill Tiller, che ha una sua software house “Autumn Moon Entertainment“.
Coincidenza? Non credo.
Quale può essere l’anello di congiunzione tra Bill Tiller e Marco Hüllen, il creatore di TWW?
Semplice, la Bad Brain Entertainment, la società che per un breve periodo finanziò (scorrere il link fino all’aprile 2005)  la Autumn Moon nello sviluppo di “A Vampyre Story” e per la quale Marco Hüllen lavorò per qualche tempo continuando lo sviluppo di quel progetto di tesi che era proprio TWW.
Non ho mai particolarmente apprezzato questo tipo di interfaccia, riduzione ai minimi termini (occhio=guarda, bocca=parla/mangia, mano=usa/prendi), se vogliamo, del menu a 9/12/15 verbi dello SCUMM di Lucasiana memoria, a sua volta già riduzione ai minini termini del parser testuale della Sierra/Legend/Infocom. A quel punto, tanto vale il cursore a scorrimento delle avventure Sierra come Gabriel Knight, o il cursore intelligente di Broken Sword.

Per fortuna, quello che viene tolto all’interattività a causa della limitatezza delle azioni che si possono compiere, viene parzialmente restituito dalla presenza del compagno di viaggio di Sadwick, il bruco (sic) Spot. A parte la scelta di una mascotte come un bruco grande quanto un porcellino, il che è quantomeno “singolare”, va apprezzato il fatto che Spot può assumere, nel corso della storia, fino a 5 “stati” diversi nei quali può interagire diversamente con gli oggetti. Spot può essere “trasformato” da uno stato all’altro puntando il cursore nell’angolo in alto a destra dello schermo. Peccato che la prima volta che Spot guadagna uno stato, questo evento non venga evidenziato, e capiti che il giocatore scopra “per caso” questa nuova funzionalità.

E’ presente una funzione di evidenziazione degli hotspot, certamente utile vista la presenza di alcuni casi di “pixel hunting”, e di questo si (s)parlerà a sufficienza quando si affronterà il tema degli enigmi.

Cliccando la barra spaziatrice verranno segnalati tutti gli hotspot della schermata

L’inventario è estremamente tradizionale: si apre con il tasto destro, ed appare come una enorme sacca dove ogni cosa trova magicamente posto. L’interazione tra oggetti dell’inventario si svolge in maniera usuale, clic sul primo oggetto, cursore che cambia aspetto, clic sul secondo oggetto.

Il vostro inventario di sempre

La mappa con cui ci si può spostare da una locazione all’altra è essenziale e spartana e peraltro verrà usata solo nella prima parte dell’avventura.

[continua con …
Suono/Musica/Doppiaggio.
Enigmi.Storia. ]

Il Mondo Sussurrato (The Whispered World) – I parte

Ma che bella sorpresa è questa avventura della Daedalic Entertainment a cui la critica dedica un giudizio, pur se generalmente positivo, non proprio unanime, stando ad osservatori come GameRankings , visto che alcuni arrivano a giudicarla un prodotto appena sufficiente, in particolare la stampa del Regno Unito, parrebbe di capire.

Innanzitutto il gioco di parole (voluto?) con cui si presenta il titolo: Il Mondo/La Parola Bisbigliato/a (The Whispered Wor(l)d), [a cui io personalmente preferisco Il Mondo Sussurrato] e la stessa grafica dei caratteri ambigua, causa equivoci nelle recensioni stesse, e nei riferimenti nei forum, prova ne sia una semplicissima googlatura.

In mezzo ai tanti difettucci, che essendo “difettucci”, insieme non riescono a fare un difetto che giustifichi una stroncatura tale da far sconsigliare il gioco, compaiono anche alcune sviste nella traduzione, cose di poco conto; il compito della traduzione/localizzazione (e qui casca l’asino) è stato affidato alla Translocalcell, a quanto risulta dai riconoscimenti (spero che non abbiano avuto responsabilità nella localizzazione del sito web della Daedalic e nell’aver lasciato in bella vista un ricorrente “Il Gieco”, ed altri gustosi typo). Ora, (uèila, ma chi si vede nei riconoscimenti, almeno sul manuale, per il “proof reading” (correzione di bozze, per i non anglofili, alcuni di quelli di AdventuresPlanet), come si fa a lasciare in inglese : “There’s a hole in the bucket, dear Henry, dear Henry…”?

Peccatucci veniali, veramente, cercati con il lanternino solo per citare qualche aspetto negativo (e ce ne sono, per carità), ma che niente riescono a togliere al sostanziale giudizio positivo che emerge dopo aver giocato completamente a TWW (ho come il sospetto che qualcuno dei giudizi negativi sia stato emesso senza finire il gioco, ma sono illazioni…)

La trama e l’intreccio saltano all’occhio come quelli che sono gli elementi forti di quest’avventura e che sorreggono un impianto di gioco altrimenti simile a tanti altri prodotti del genere. Il protagonista, innanzitutto. Un giullare triste (o più un pagliaccio, visto che, girovago insieme al fratello ed al nonno, si esibisce nel piccolo circo familiare) sembrerebbe lo stereotipo più abusato nel romanzo e nel melodramma, ma questo è anche affetto da depressione (il male del secolo!) e presenta un colorito grigiastro malaticcio che lo deforma ancora più, stridendo con il suo costume da saltimbanco.

Prima di entrare nel vivo della recensione, ma parlerei più di esaltazione soggettiva di un titolo che di resoconto obiettivo, un’osservazione di quante citazioni, alcune nascoste, altre plateali, vi siano disseminate lungo il percorso dell’avventura: una particolarmente incisiva è quel grido/gioco di parole: “I have no mouse, and I must scream!!!” nel quale mi è capitato di imbattermi, ma ci sono indiscutibili riferimenti a Loom e, potrà sembrare astruso dirlo per un’avventura cartoonesca, fantasy medievale e demenziale come questa, citazioni di Sanitarium (quando arriverete a quel punto, mi darete ragione). Tutto questo credo che sia segno che chi ha firmato la sceneggiatura (Marco Hüllen) sia prima un appassionato di avventure grafiche che un professionista nel senso stretto del termine.

[Continua…]